Tecnostress, quando l’uso della tecnologia sul lavoro diventa un problema

Un gruppo della Scuola IMT studia questa forma di disagio psicofisico, e progetta interventi per prevenirlo e ridurlo.

Gustav Dejert/Ikon Images/AGF

“Posso chiamarti su Teams fra cinque minuti?”.
“Riesci a mandarmi quel file al volo?”.
“È necessario riavviare il computer per installare alcuni aggiornamenti”.

Due domande e un’“intimazione”. Chat, collega e computer hanno bisogno di noi e tutti e tre contemporaneamente. Sono solo alcune delle situazioni che ognuno, quotidianamente, affronta in una normale giornata di lavoro. E che possono diventare fonte di tecnostress: si chiama così lo specifico stress provocato da un utilizzo eccessivo degli strumenti tecnologici. Termine generico, entrato nel linguaggio comune, ma utilizzato anche in modo assai specifico dai ricercatori che  si occupano di ergonomia, ovvero il campo scientifico che studia come migliorare l’interazione tra l’uomo e l’ambiente in cui vive e lavora.

Alla Scuola IMT, i ricercatori dell’unità di ricerca MoMiLab – Molecular Mind Laboratory – stanno conducendo degli studi in questo campo in collaborazione con il Neuroscience Lab di Intesa Sanpaolo Innovation Center. Ne parliamo con Maria Donata Orfei, psicologa e ricercatrice della Scuola.

Che cos’è il tecnostress?

La parola è ormai usata genericamente in qualsiasi conversazione, ma la sua esatta definizione è quella di una sindrome causata dall’interazione prolungata, costante e intensiva con strumenti tecnologici e informatici.
I nostri studi e il nostro interesse hanno guardato in maniera circoscritta all’interazione in ambito lavorativo, anche se in realtà tutti noi, nella vita di ogni giorno e non necessariamente in quella professionale, abbiamo a che fare di continuo con smartphone e altri device, e siamo sopraffatti da mail, chat e social media in genere.  

Come nasce questo tipo di stress?

Dobbiamo pensare che, se da una parte la tecnologia ci viene in soccorso nel velocizzare il nostro lavoro e nella capacità di gestire molte informazioni contemporaneamente, il nostro cervello non ha prestazioni inesauribili per stare al passo con i vari compiti. La nostra working memory, la cosiddetta memoria di lavoro che processa le informazioni nella memoria a breve termine, è un sistema cognitivo con una capacità di elaborazione limitata. Costringerci continuamente a spostare l’attenzione da un compito a un altro, significa “riavviare” il cervello ogni volta. Un’attività molto faticosa perché bisogna recuperare istantaneamente informazioni di un certo tipo, lavorarci per poi passare d’improvviso ad altro, quindi recuperare un’altra “cartella” e nuovi file archiviati nel nostro cervello.

Che cosa significa tutto questo nel modo di lavorare quotidiano?

Il multitasking è l’esempio classico di questo modo di procedere. Molti di noi, quando lavorano, hanno un desktop con tante finestre aperte. Arriva un’e-mail alla quale si deve rispondere con urgenza, nel frattempo, magari, si apre un pop-up, poi squilla il cellulare, inizia la video-riunione, arrivano dei messaggi sulla chat… Ovviamente stiamo parlando di persone con un’attività lavorativa che implica un uso costante, prolungato e diversificato del computer.

O ancora: tanti usano contemporaneamente diversi programmi, da quelli per la scrittura, a quelli statistici così come quelli per comunicare a distanza, Meet, Zoom, Teams, Skype e così via, e a volte vanno cambiati a seconda dell’interlocutore o del compito da svolgere. In genere, insomma, ci troviamo ad eseguire molto rapidamente quello che in neuropsicologia chiamiamo set shifting, cioè il dover passare continuamente da un argomento all’altro, da uno stimolo all’altro, da una risposta ad un’altra in modo molto veloce. Ciò comporta un sovraccarico nella memoria di lavoro e nel sistema attentivo, che a sua volta provoca una reazione di stress.

Ci sono sintomi e segni specifici di questo tipo di stress?

Senso di irritazione, nervosismo, apatia sono solo alcuni esempi di manifestazioni, che appartengono a tre categorie: comportamentali, psicofisiche e cognitive. In generale, l’organismo entra in sofferenza quando gli stimoli si sommano, con la possibile insorgenza di sintomi psicosomatici. L’insonnia, l’emicrania e i dolori articolari sono tra i più frequenti. Poi ci sono stati di vera e propria ansia con coinvolgimento del respiro e conseguenze sul corpo in generale, che a loro volta possono creare un ulteriore disagio emotivo.

Con il tempo, non è infrequente trovarsi in una sorta di stato di dipendenza, per cui lo smartphone usato per lavoro diventa quasi una persecuzione perché siamo, o meglio, sentiamo di dover essere sempre reperibili. Rispondere alle mail diventa un “imperativo morale” perché chi è dall’altra parte si aspetta che lo facciamo. Tutto ciò accompagnato da un non ben definito senso di disagio o invasione che può sconfinare anche nella vita privata. Il lavoro, occupando buona parte della nostra giornata, può diventare una fonte di stress importante.

Quali sono i metodi con cui le neuroscienze studiano il tecnostress?

L’approccio che noi sposiamo è quello multidimensionale, che integra i classici questionari psicologici con cui viene valutato lo stress con la misurazione dello stress psicofisico attraverso strumenti e dispositivi. Utilizziamo per esempio l’elettroencefalogramma, l’eye tracker, che serve a osservare il movimento oculare e a misurare la dilatazione del diametro pupillare, indice di carico cognitivo di interesse e di attenzione, oppure gli stress bracelet, simili a degli orologi da fitness, che ci forniscono informazioni sull’attivazione del nostro organismo in risposta a uno stress. Unendo le informazioni soggettive che ci vengono dai test con le misurazioni oggettive degli strumenti, riusciamo a ottenere una visione completa di quello che sta accadendo all’individuo.

In collaborazione con Intesa Sanpaolo, il nostro gruppo ha condotto una ricerca presentata quest’anno al congresso nazionale della Società Italiana di Ergonomia e Fattori Umani. Coinvolgendo più di duemilacinquecento impiegati bancari, abbiamo rilevato una serie di dati iniziali, una sorta di fotografia di partenza, con i metodi appena descritti. Come passo successivo, abbiamo poi fornito una serie di indicazioni per interventi di prevenzione.

Quali sono?

Esistono degli accorgimenti che, compatibilmente con l’efficienza lavorativa, permettono di rendere più fluida, piacevole e soprattutto sana l’interazione con la tecnologia. Dal 2020 a oggi, per le aziende, sono stati individuati suggerimenti, vere e proprie policy o regole comportamentali, come il diritto alla disconnessione, l’indicazione di fissare le riunioni con sufficiente anticipo, stabilire delle fasce orarie di utilizzo, usare le e-mail quando non vi sia urgenza.

Nella ricerca svolta in collaborazione con Intesa Sanpaolo abbiamo proposto e testato l’efficacia di alcuni possibili interventi. Abbiamo sottoposto un gruppo di lavoratori a un training che, da un lato suggeriva strategie di utilizzo sano della tecnologia, e dall’altro “allenava” le funzioni cognitive maggiormente coinvolte. L’allenamento consisteva in diciotto sessioni di esercizi dalla durata di circa venti minuti l’una, da svolgersi con una frequenza consigliata di tre volte a settimana. Il training includeva esercizi di auto-riflessione per prendere consapevolezza del proprio grado di stress e delle possibili criticità nell’utilizzo quotidiano degli strumenti informatici.

Prevedeva poi esercizi cognitivi per rinforzare la memoria, l’attenzione, il set-shifting, la working memory. Infine, includeva pratiche di rilassamento, concentrazione e gestione del tempo e delle attività, così da rendere più equilibrato e meno stressogeno il rapporto con gli strumenti di lavoro e quindi, in definitiva, migliorare il livello di qualità della vita.

Il training proposto nello studio si è dimostrato efficace: confrontando i dati raccolti prima e dopo l’allenamento, abbiamo osservato un effettivo e significativo miglioramento della sensazione soggettiva di tecnostress. In particolare, si è visto che la percentuale dei soggetti che prima del training mostravano un livello di tecnostress tra moderato ed elevato, è scesa dal 39 per cento al 30 per cento, mentre nel gruppo di controllo che non eseguiva il training non è stato rilevato alcun cambiamento. Inoltre, secondo il questionario di gradimento finale, tra l’80 per cento e il 90 per cento del campione ha stimato come “molto soddisfacente” l’esperienza in termini di originalità, utilità e benefici, e circa la metà ha dichiarato di aver percepito un miglioramento della propria condizione di stress e consapevolezza. In generale, il gradimento era di poco più alto nelle donne e nei soggetti più giovani così come negli over cinquantacinque.

Marco Grande e Francesca Tabarrani

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