
L’intelligenza artificiale sta trasformando non solo le nostre vite, ma anche il panorama politico globale. Per esempio, con strumenti sempre più raffinati ed efficienti – dal riconoscimento dei dati biometrici al tracciamento dei movimenti, fisici e online – i regimi autoritari sono in grado di esercitare sorveglianza e controllo a livelli senza precedenti. Comprendere come li utilizzano, in che direzione si stanno muovendo, è più urgente che mai. Michael Rochlitz, ex allievo della Scuola IMT e oggi professore all’Università di Oxford, la cui ricerca abbraccia l’economia politica della Russia, dell’Europa orientale e dell’Eurasia, ci aiuta a comprendere questi cambiamenti.
Oggi si parla ormai, in riferimento ad alcune società, di “governo algoritmico”. Che cosa si intende?
Ci si riferisce ai sistemi che centralizzano i dati sui cittadini, ufficialmente per rendere il governo e le decisioni pubbliche più efficienti, ma che includono anche una componente di controllo.
In Cina, per esempio, su cui stiamo lavorando, negli ultimi dieci anni la ricerca sull’intelligenza artificiale è esplosa. Sono stati costruiti sistemi di sorveglianza integrati con la polizia e i dati dei cittadini. Essendo un’autocrazia con accesso a enormi quantità di dati, la Cina riesce ad addestrare questi sistemi con grande efficacia. Ora sta anche esportando queste cosiddette “soluzioni per città sicure” attraverso la Belt and Road Initiative in Asia Centrale, nel Caucaso, in Africa e in altre regioni del mondo: è vero che migliorano l’efficienza amministrativa ma comportano anche una forma di controllo. È interessante notare che sistemi simili stanno emergendo anche negli Stati Uniti, nella Silicon Valley, per esempio con Palantir, un’azienda specializzata nell’analisi dei big data.
In questo momento stiamo cercando di mettere insieme questi due fenomeni, per analizzare come le società civili, in particolare in Europa, siano strette in una sorta di “tenaglia” tra la tecnologia di sorveglianza cinese e quella americana. Le nostre società oggi sono molto deboli nel reagire a queste sfide, anche a causa del populismo e della polarizzazione.
Studi i regimi autoritari e la sorveglianza, quali credi siano gli aspetti più fraintesi di questi sistemi politici?
Uno dei fraintendimenti più comuni è l’idea che la vita nelle autocrazie sia miserabile. Molti pensano che le persone vivano costantemente infelici e oppresse. Io ho vissuto in Russia dal 2012 al 2017, e poi fino al 2019 ci sono tornato spesso. Poi c’è stata la pandemia e la guerra, ma la vita era comunque abbastanza confortevole: la qualità della vita è migliorata molto nel tempo.
Esiste un’intera letteratura su ‘”authoritarian responsiveness”, ovvero sul tentativo di questi regimi di fornire servizi pubblici. Allo stesso tempo, è ovviamente difficile vivere lì: non si possono contestare i governi, la corruzione è altissima e le élite si arricchiscono grazie al controllo delle risorse economiche. In Russia, in particolare, c’è un piccolo gruppo legato a Putin che è diventato davvero molto ricco. Si potrebbe stare molto meglio, certo, ma la vita non è affatto orribile per la maggior parte della popolazione. Ed è una differenza importante rispetto alle autocrazie del Novecento.
Tuttavia, resta sempre il rischio di una regressione. La Russia sta chiaramente prendendo quella direzione. Anche la Cina sta passando da un sistema più istituzionalizzato a uno più personalistico. Se un futuro leader con idee estreme dovesse arrivare al potere, potrebbe non esserci alcun freno istituzionale. Non è affatto scontato che il Novecento non possa tornare.
Cosa non ci dicono gli indicatori economici come il PIL sul funzionamento delle autocrazie?
Il PIL può essere molto fuorviante. Dopo le sanzioni del 2022, molti analisti prevedevano che l’economia russa sarebbe crollata del 10–15 per cento. Invece, ha mostrato una crescita del 3–4 per cento. Quindi, in apparenza, l’economia va bene nonostante le sanzioni. Ma se si guarda dietro le quinte, si capisce cosa sta succedendo davvero.
La spesa per sanità ed educazione è calata drasticamente. Negli ultimi trent’anni, la Russia aveva costruito un sistema universitario competitivo a livello internazionale. Dopo il 2022, le reti internazionali si sono interrotte e molti professionisti qualificati hanno lasciato il paese. Lo stesso è accaduto in informatica, intelligenza artificiale e ricerca tecnologica. Questo è oggi il principale collo di bottiglia nel settore della difesa, e la Russia non ha più accesso a queste risorse, come ad esempio i chip veloci per i computer.
Hanno ancora risorse naturali, vendono petrolio e gas, e usano quei fondi per finanziare l’industria bellica: carri armati, armi, munizioni. Tutto questo si riflette nel PIL. Ma il PIL non mostra il degrado delle infrastrutture, il peggioramento della salute, l’aumento della mortalità o il crollo dell’istruzione, che avranno conseguenze molto gravi nel lungo periodo.
Quali sono le strategie con cui media e intelligenza artificiale influenzano il controllo politico in paesi come Russia e Cina?
Nel 2016 abbiamo condotto un esperimento controllato randomizzato in Russia. Abbiamo dato accesso gratuito all’ultima TV d’opposizione online a persone in 15 città, poche settimane prima delle elezioni parlamentari. In parallelo, abbiamo somministrato dei questionari.
Abbiamo scoperto che le persone più anziane, che si informano soprattutto dalla TV, erano più ricettive quando esposte a opinioni alternative. Erano molto meno propense a votare per Putin, una volta ascoltata una voce indipendente. Gli utenti online, invece, erano più polarizzati: davanti a opinioni contrarie, reagivano negativamente e diventavano ancora più determinati nel rimanere fermi sulle loro posizioni. È per questo che i regimi autoritari puntano prima di tutto a controllare la TV: è lo strumento più efficace per orientare l’opinione pubblica.
Fino al 2022 circa, internet in Russia è rimasto relativamente libero, anche perché offriva un utile flusso informativo per il regime stesso. I media indipendenti online possono mostrare realtà locali che i funzionari o i servizi segreti tendono a nascondere. Ma oggi anche questo spazio si sta chiudendo.
La tua ricerca ha una forte dimensione internazionale. In che modo questo ha influenzato il tuo approccio all’economia politica?
È proprio questo che amo dell’economia politica comparata: puoi andare direttamente sul campo per studiare posti diversi. Ora sono alla School of Global and Area Studies di Oxford, che ha un approccio leggermente diverso rispetto ai dipartimenti più tradizionali di scienze politiche o economia. Lì ci si concentra molto sui meccanismi, ma spesso si tralascia la conoscenza del contesto.
Quello che cerco di fare è combinare solidi metodi quantitativi e inferenza causale con una conoscenza diretta dei luoghi: conoscere la lingua, averci vissuto, conoscere le persone, aver preso i treni locali, visto le strade polverose… avere un approccio “boots on the ground”.
Che consiglio daresti a chi vuole unire ricerca e policy in contesti internazionali complessi?
Bisogna riflettere bene su cosa si vuole fare nel quotidiano. In accademia si passa molto tempo con gli studenti, tra insegnamento e supervisione. E poi ci sono i compiti amministrativi. A Oxford, ad esempio, dove dirigo un master, c’è molta burocrazia. Ma l’equilibrio tra didattica e ricerca è positivo: si ha tanto contatto con le persone.
Il lavoro nel policy-making è diverso. Si parla con funzionari, si tengono interventi pubblici, si scrivono report. Ma spesso le istituzioni che assumono policy researcher non sono interessate alle pubblicazioni accademiche, e il lavoro può risultare meno approfondito.
Elena Miscischia