
Far volare decine di tonnellate di metallo, valige e persone non è un’impresa facile, soprattutto in maniera costante e sicura. Ma tra soluzioni tecnologiche, normative e controlli di sicurezza questa impresa è nel nostro mondo una realtà quotidiana, con gli aerei che si classificano come uno dei mezzi di trasporto più sicuri in assoluto. Ciononostante, gli incidenti capitano, e a volte a renderli più probabili sono fattori a prima vista difficilmente spiegabili. Per esempio, è più probabile che capiti un incidente se alla guida del velivolo c’è il pilota, piuttosto che il co-pilota. Tom Becker, della University of London, e Peter Ayton, della University of Leeds, hanno recentemente condotto uno studio per investigare su preciso fenomeno. I risultati sono stati presentati da Ayton in occasione del convegno SPUDM 2025 (Subjective probability, utility & decision making) che si è svolto a settembre alla Scuola IMT.
Differenze di ruoli
Facciamo un passo indietro: nella maggior parte degli aerei, sono due le persone responsabili di farlo volare. Si dividono due tipi di ruoli, uno gerarchico e uno operativo. La divisione gerarchica è quella tra pilota (o pilot-in-command, PIC) e copilota (o second-in-command, SIC). Quella operativa assegna invece i ruoli di pilot flying (PF, la persona che effettivamente fa volare l’aereo) e pilot monitoring (PM, la persona che controlla lo stato dell’aereo e deve segnalare deviazioni o anomalie, e nel caso intervenire). Sia il pilota sia il copilota possono assumere i ruoli di pilot flying e pilot monitoring, e di solito infatti, nel fare avanti e indietro lungo una tratta, si alternano.
Da decenni si fanno studi e analisi per capire se e come il modo in cui i membri dell’equipaggio interagiscono, anche in base al loro ruolo, influenza la sicurezza e la qualità del volo. A partire da una ricerca condotta dalla NASA negli anni ‘70, è noto che alcuni incidenti aerei sono stati causati o aggravati da errori umani legati ai processi decisionali e alla capacità dei piloti di coordinarsi. Già dagli anni ‘80, infatti, i piloti sono sottoposti a una formazione specifica per la gestione dell’errore umano, chiamata Crew Resource Management (CRM), che è stata completamente integrata nel percorso da pilota negli anni ‘90.
Anche con tutte queste accortezze, il fattore umano comunque rimane, ed emerge il fenomeno al centro del nuovo studio. Già un’altra indagine della US National Transportation Board (NTSB) del 1994 osservava che in 30 casi su 37 di incidenti con causa “umana” il pilota era nel ruolo di pilot flying, ovvero stava effettivamente pilotando l’aereo. Anche altri studi, altrettanto vecchi, evidenziano questo dato.
Alla ricerca di una spiegazione nel database degli incidenti
Ma perché dovrebbe essere più probabile un incidente quando è alla guida il pilota, piuttosto che il copilota? Per capirlo, Ayton e Becker hanno voluto innanzitutto confermare la fondatezza del fenomeno, analizzando un numero molto più alto di incidenti rispetto ai precedenti studi. Hanno poi testato tre ipotesi, tre possibili spiegazioni di questo fenomeno, anche per capire come eventualmente mitigarlo.
Per prima cosa, i due ricercatori, utilizzando il database fornito dal Jet Airliner Crash Data Evaluation Centre (JACDEC), hanno escluso gli incidenti non rilevanti, come quelli dovuti a malfunzionamenti tecnici o quelli su aerei piccoli, di solito pilotati da un’unica persona. Da questa selezione (2.293 eventi) è stato possibile stabilire i ruoli di pilota e copilota per 841 eventi, la base di partenza per il resto dello studio. Dall’analisi emerge una conferma dell’osservazione iniziale: più del 70 per cento degli incidenti ha avuto luogo con il pilota nel ruolo di pilot flying, e il 76 per cento delle fatalità è avvenuto sempre in queste condizioni.
Per confermare che il fenomeno è legato al fattore umano, sono state valutate anche le condizioni di operatività del velivolo, ovvero se l’aereo era tecnicamente in condizioni normali di volo, senza emergenze a bordo, oppure se erano presenti problemi tecnici o emergenze come fumo o fiamme. Un altro fattore preso in considerazione è la prevenibilità, ovvero la possibilità realistica per i piloti di prevenire l’incidente semplicemente comportandosi diversamente. Questi due fattori sono stati valutati per i vari eventi, e confermati indipendentemente da un gruppo di esperti.
È emerso che il 72 per cento degli eventi analizzati è avvenuto durante una condizione di operatività normale, e che addirittura quasi l’88 per cento degli eventi sarebbe stato prevenibile dai piloti. Guardando solo le fatalità, ben il 96.3 per cento è avvenuta per incidenti prevenibili.
Contano i rapporti gerarchici, l’esperienza, lo sforzo cognitivo?
Confermato con un numero di studi più ampio che l’assegnazione dei ruoli tra pilota e co-pilota influenza la probabilità di un incidente aereo, resta da capire perché. A partire da studi precedenti sono stati sottolineati tre possibili fattori che potrebbero spiegare il fenomeno. Il primo, il più citato in altri studi simili, riguarda la differenza gerarchica tra pilota e co-pilota: data questa asimmetria, un co-pilota nel ruolo di pilot monitoring (ovvero che sta vigilando ma non effettivamente pilotando) potrebbe trattenersi dall’esprimere osservazioni e preoccupazioni. Un altro fattore potrebbe essere la differenza di esperienza: il co-pilota, di solito meno esperto del pilota, potrebbe essere un pilot monitoring meno capace e consapevole. In ultima battuta, potrebbe avere un ruolo anche la differenza di carico cognitivo: se il pilota, oltre appunto ad essere in ruolo gerarchicamente superiore, ha il ruolo di pilotaggio effettivo, il carico totale di questi due ruoli potrebbe ridurre la sua consapevolezza situazionale e impattare sulle sue capacità decisionali.
Per mettere alla prova queste ipotesi è necessario avere delle variabili misurabili su cui testarle. Per la differenza gerarchica, è stato considerato il cosiddetto “Indice di Distanza dal Potere (PDI)” di Hofstede” che misura, nelle persone con meno potere all’interno di organizzazioni e istituzioni, l’accettazione del potere e dell’ineguaglianza. Si tratta di un valore in qualche misura culturale, che cambia da paese a paese: in Regno Unito e Germania è ad esempio 35, mentre in Austria è di 11. Nella pratica questo valore indica che, ad esempio, l’Austria è caratterizzata culturalmente da una popolazione meno distante dal potere, e in qualche modo meno “asservita” e compiacente alla disuguaglianza rispetto alle prime due. Considerando questo indice, se la differenza gerarchica fosse rilevante per spiegare questi incidenti, coppie di piloti e co-piloti di paesi diversi dovrebbero mostrare risultati diversi in termini di incidenti.
Per quanto riguarda la differenza di esperienza, si può esaminare il numero di ore volate dal pilota e dal co-pilota, sia in generale che per il tipo specifico di velivolo coinvolto nell’incidente.
Infine, l’impatto cognitivo può essere studiato attraverso l’età delle persone coinvolte, visto che diversi studi che evidenziano un declino delle performance legato all’invecchiamento. Il fenomeno dovrebbe essere quindi più accentuato per persone più avanti negli anni, e l’età dovrebbe essere un predittore sia delle performance nei test di volo che della frequenza degli incidenti.
Degli 841 eventi iniziali, per soltanto 144 è stato possibile raccogliere tutte le informazioni necessarie per testare le varie ipotesi, per vedere quali variabili hanno un potere predittivo rispetto alla possibilità di un incidente aereo.
Un cambio di paradigma per la sicurezza
Dall’analisi, è smentita l’ipotesi legata alla differenza gerarchica, almeno misurata attraverso il valore di PDI, così come non sembrano essere predittori di un incidente la differenza di esperienza, misurata in ore di volo, e l’età del pilota. L’età del co-pilota sembra essere invece rilevante per co-piloti più giovani, anche se non è qualcosa che dipende dalla loro esperienza, che, come visto prima, non sembra entrare in gioco.
L’interpretazione finale suggerisce quindi ci sia un effetto dovuto alla differenza gerarchica, ma che questo non sia legato tanto a una effettiva differenza di esperienza, quando a una tipica differenza di età tra pilota e co-pilota, che rende più difficile per il co-pilota il ruolo di monitoraggio.
Come risolvere, o almeno mitigare, questo problema? I due autori dello studio suggeriscono che la soluzione sia fare in modo che la persona con il ruolo di pilota non sia mai anche nel ruolo di pilot flying, ovvero che guida effettivamente. Un modo per ottenere questo risultato, mantenendo la necessaria alternanza alla guida nelle varie tratte, è quello di abolire il rango di co-pilota e di avere in cabina due piloti con lo stesso rango, che possano alternarsi di ruolo, in modo che chi agisce da pilota abbia il ruolo da pilot monitoring, con l’altro che invece fa da pilot flying. Un cambio di paradigma non banale, considerato che questa configurazione di ruoli è in vigore nell’aviazione da decenni, ma che, secondo i dati, sarebbe fondamentale per evitare incidenti e salvare vite.
Jasmine Natalini