È finita l’era della globalizzazione?

Come pandemia e crisi energetica stanno trasformando il sistema economico globale.

Chiara Bellucci | ricercatrice in economia internazionale, Scuola IMT Alti Studi Lucca
Pexels/Mikhail Nilov

Aumento dei prezzi delle bollette energetiche, difficoltà nel reperire prodotti di uso quotidiano, prezzi di acquisto in rialzo, sono solo alcuni degli effetti che tutti quanti, come consumatori o produttori, stiamo sperimentando a seguito degli shock che l’economia internazionale ha subito negli ultimi mesi. Lo scoppio della pandemia Covid-19, oltre ad aver causato una crisi sanitaria a livello globale, ha drammaticamente influito anche sui commerci internazionali, a seguito delle forti restrizioni agli spostamenti delle persone e delle merci imposte dai governi, che hanno visto le imprese domestiche di molti settori bloccarsi di fronte all’impossibilità di reperire le materie prime necessarie alla produzione e alla mancanza di liquidità necessaria per gestire i flussi di cassa. Allo stesso modo oggi, mentre le imprese stanno ripartendo, seppur a ritmi diversi, nel mondo post-Covid, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha innescato una delle peggiori crisi energetiche degli ultimi decenni, con ripercussioni non solo sull’Europa ma su molti altri Paesi che stanno soffrendo o beneficiando per le forti oscillazioni nei mercati del gas e dell’energia elettrica. Così, mentre una famiglia italiana paga bollette raddoppiate rispetto all’anno precedente e i piccoli imprenditori fanno fatica a mantenere aperte le proprie attività, le stime del Fondo Monetario Internazionale prevedono che la ripresa economica dalla crisi pandemica sarà fortemente rallentata per via del conflitto in corso, e l’Italia ne subirà gli effetti entrando in recessione a partire dal terzo trimestre del 2022

Perché tutto questo accade?

L’economia globale della storia recente è stata caratterizzata da una crescente integrazione tra Paesi, favorita dai numerosi accordi commerciali stipulati per abbattere le barriere tariffarie e non, e da un rapido avanzamento tecnologico, soprattutto per gli strumenti digitali. Facendo un passo indietro, negli ultimi decenni si è assistito a una fase di forte accelerazione della globalizzazione, prima con il boom economico del dopoguerra e poi, a partire dagli anni ’80, con la crescita delle grandi economie emergenti, tra cui spiccano Cina e India, e con la caduta nell’Europa dell’est del blocco sovietico che ha dato il via a un periodo di liberalizzazione economica. In questo modo, le economie che prima si limitavano a importare ed esportare prodotti finiti ed erano incentrate su un modello di produzione domestica, diventano globali e interconnesse, con il risultato della creazione di filiere produttive che superano i confini nazionali e si caratterizzano per una forte frammentazione delle diverse fasi di produzione. Così oggi per produrre un’automobile o uno smartphone vengono coinvolte imprese localizzate in tutto il mondo, ognuna delle quali svolge una precisa fase del processo produttivo, per poi esportare i propri semilavorati alla successiva impresa della supply chain. In questo modo si sono create catene produttive interconnesse tra loro, che danno vita a veri e propri network produttivi in cui le imprese svolgono la propria attività in un contesto di dipendenza reciproca. Questo comporta inevitabilmente che ogni azienda coinvolta in un processo di produzione globale, risulti vulnerabile ed esposta agli shock che altre imprese in altre parti del mondo o in altri settori possono subire. Così, il fenomeno della globalizzazione ha raggiunto un picco di crescita nel 2008, per poi subire una brusca battuta d’arresto a seguito della crisi finanziaria originatasi negli Stati Uniti e che ha investito l’Europa e il resto del mondo.

Chiara Bellucci, ricercatrice in economia internazionale, unità di ricerca AXES, Scuola IMT

Deglobalisation e slowbalisation

Da allora, molti economisti hanno iniziato a parlare di de-globalizzazione per connotare una nuova fase che l’economia mondiale sta attraversando, caratterizzata da un ritorno a una dimensione più domestica delle economie e a una progressiva regionalizzazione delle filiere produttive. Ma si può davvero tornare indietro? Certo è che negli ultimi dieci anni si è assistito a un marcato rallentamento dei commerci internazionali e a un mutamento dello scenario geopolitico: la Cina, guidata dal presidente Xi Jinping, ha avviato una serie di politiche volte a promuovere lo sviluppo delle industrie domestiche tecnologicamente avanzate nel tentativo di diventare leader nella produzione di prodotti ad alto valore aggiunto. Intanto nel 2018 negli Stati Uniti, Donald Trump, sotto lo slogan del ‘America First’, nel tentativo di contrastare la minaccia asiatica ha promosso una serie di politiche protezioniste dando avvio aduna guerra commerciale per colpire settori strategici in cui la Cina ricopre un ruolo centrale, ma con effetti negativi che coinvolgono l’Europa e l’America stessa. Tuttavia, nonostante ci siano numerosi segnali che possano far pensare a un’inversione di tendenza con un ritorno ad una dimensione nazionale dell’economia e alla fine della globalizzazione, sembra invece più realistico considerare i cambiamenti in corso come il frutto di un periodo di iper-globalizzazione che è stata sostenuta da diversi fattori, tra cui la rivoluzione tecnologica e digitale, la forte accelerazione nella liberalizzazione dei commerci e dei flussi di capitale. In quest’ottica, l’era che stiamo vivendo oggi non è quella della de-globalisation, ma piuttosto della slowbalisation.

Filiere fragili

I nuovi shock economici che gli Stati hanno sperimentato negli ultimi tre anni hanno messo in luce le fragilità insite nelle filiere produttive globali, rendendo le imprese più consapevoli della necessità di riconfigurare i propri network produttivi. Se l’obiettivo primario delle multinazionali è stato finora quello di localizzare parti della produzione nei Paesi in cui esistono vantaggi di costo al fine di massimizzare i profitti e migliorare la produttività, la pandemia da Covid-19 e lo scoppio del conflitto tra Russia e Ucraina hanno reso chiara l’importanza di creare reti produttive potenzialmente meno efficienti ma più sicure, flessibili e resilienti. Uno scenario in cui le imprese rinunciano a filiere produttive globali e tornano in modo massivo a una produzione di tipo domestico – il cosiddetto reshoring – sembra poco probabile se si pensa ai grandi investimenti e ai costi fissi che un’azienda sopporta per aprire un impianto produttivo all’estero. Servirebbero shock persistenti dal lato della domanda o dell’offerta per indurre le imprese a modificare radicalmente i propri processi produttivi. La pandemia si può considerare invece uno shock di natura temporanea, che ha portato al fallimento delle aziende più piccole, meno produttive e con difficoltà di accesso al credito, ma che è stato superato dal resto delle imprese, spesso con una forte ripresa durante il 2021. Per tali aziende, è fondamentale realizzare nuove strategie di business per assicurarsi contro i futuri shock a cui saranno soggette.

Pexels, Tom Fisk

Nuove strategie per resistere agli shock

Alcune grandi multinazionali stanno già sperimentando nuove modalità di gestione dei processi produttivi per rispondere al meglio alle crisi: Amazon e la grande azienda nel settore dei trasporti marittimi Maersk si stanno spostando verso un modello di trasporto aereo per poter sopperire ai potenziali colli di bottiglia negli approvvigionamenti via mare che si sono verificati di recente soprattutto nei porti asiatici. La divisione sanitariadell’azienda General Electric sta investendo per diversificare la propria rete di fornitori e sta espandendo gli stabilimenti a seguito della forte carenza nella fornitura di semiconduttori nel settore della tecnologia medica. Nel settore automotive, imprese come Toyota, Tesla e Volkswagen stanno modificando il classico processo produttivo just in time per aumentare le scorte di magazzino di batterie, chip e altre componenti chiave per assicurare le prossime consegne di automobili. Per rimanere competitive, anche le altre imprese presenti nel mercato dovranno seguire i passi compiuti dalle aziende leader e di conseguenza riadattare i propri processi di produzione. La tendenza sembra perciò indicare che, se le imprese sapranno adattarsi e rispondere in maniera proattiva alle criticità che le crisi attuali hanno fatto emergere, per il futuro non dobbiamo aspettarci un mondo de-globalizzato e un ritorno economie isolate, ma piuttosto un sistema economico globale in cui le filiere produttive saranno meno dipendenti da pochi fornitori chiave concentrati in particolari Paesi, più diversificate, decentralizzate e quindi capaci di fronteggiare i rischi connessi al crescente quadro di incertezza che l’economia mondiale si troverà ad affrontare negli anni futuri.

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