
Come si può capire se una politica pubblica funziona davvero? E per chi? Sono domande cruciali in tempi di risorse scarse e grandi disuguaglianze. Cercare risposte è il lavoro di ricercatori come Falco Bargagli Stoffi, oggi professore alla UCLA, con un passato da dottorando tra la Scuola IMT e Leuven e un’esperienza da post-doc ad Harvard. Il suo lavoro si muove all’incrocio tra intelligenza artificiale, inferenza causale e politiche pubbliche: utilizzando modelli avanzati di machine learning questo settore si occupa di valutare l’efficacia di interventi sociali e sanitari in modo che producano un impatto reale sulla vita delle persone. In questa intervista, ci racconta come nasce una ricerca “utile”, quali sfide incontra nel dialogo con le istituzioni e perché, nonostante le difficoltà, il mondo accademico resta una bellissima maratona da correre con passione.
Si può riassumere quello di cui ti occupi?
Il mio lavoro consiste nell’utilizzare matematica, statistica e intelligenza artificiale per provare a migliorare i servizi pubblici e sanitari, e portare benefici concreti alle persone. In particolare, sviluppo modelli che combinano l’intelligenza artificiale (specificamente il machine learning) con l’inferenza causale. Questi strumenti ci permettono di determinare con precisione se un certo intervento – sia esso un farmaco, un programma di formazione professionale o un sussidio economico – funziona davvero e, soprattutto, per chi. Il valore di questi modelli è duplice: da un lato rendono le politiche pubbliche più mirate e meno costose, dall’altro massimizzano i benefici per i cittadini. In sostanza, cerco di aiutare a garantire che le risorse, pubbliche o private, vengano utilizzate nel modo più efficace possibile.
Quali sono stati finora i progetti più significativi su cui hai lavorato?
Ne citerei tre. Il primo è un metodo che ho sviluppato durante il periodo trascorso all’università di Harvard durante il dottorato per valutare l’efficacia delle politiche ambientali e identificare quali gruppi sono più vulnerabili all’esposizione a elevati livelli di inquinamento, e per cui ho ricevuto il riconoscimento dell’Health Effects Institute (HEI) americano che ha premiato il lavoro nel 2023.
Un altro lavoro a cui tengo molto è quello sviluppato durante il primo anno di dottorato alla Scuola IMT con i professori Riccaboni e Rungi e, in seguito, con il dottorando Fabio Incerti, nel quale abbiamo creato un modello di intelligenza artificiale per identificare le aziende ‘zombie’ nel contesto italiano. Il modello ci ha aiutati a quantificare questo fenomeno molto rilevante per l’Italia e migliorare gli attuali strumenti per identificare queste imprese.
Recentemente, collaborando con Gianluca Guidi, un altro ricercatore alla Scuola IMT, abbiamo fatto luce sull’impronta ambientale della tecnologia, ovvero l’impatto ambientale, spesso poco conosciuto, di strutture come data center per l’intelligenza artificiale e centri di mining per i bitcoin. Mentre c’è molta consapevolezza sull’impatto ambientale di taluni settori — si pensi all’aviazione — si sapeva molto poco su quale fosse l’impatto di queste nuove tecnologie sull’ambiente e quindi sulla salute delle persone. Il nostro lavoro è un primo passo, c’è ancora molto da esplorare in questo ambito, dal punto di vista scientifico.
Spesso non pare che i decisori politici “ascoltino”. Quali sono le principali difficoltà che si incontrano nel tradurre i risultati accademici in politiche pubbliche efficaci? È un problema di comunicazione tra la comunità accademica e quella politica?
Si tratta di una rivisitazione del tipico problema economico di domanda e offerta. Da un lato c’è bisogno di volontà e predisposizione all’ascolto da parte dei politici (lato della domanda), dall’altro c’è bisogno di una comunità scientifica (lato dell’offerta) che esca dalla torre d’avorio e produca ricerca rilevante per la vita delle persone e che sappia tradurre questa ricerca in soluzioni semplici, applicabili e comunicabili con chiarezza ai cittadini.
A proposito del lato dell’“offerta”, sono fermamente convinto che ogni tipo di ricerca vada comunicata in modo che chiunque la possa capire. È giusto fare cose molto specializzate e parte di queste cose sarà ovviamente di difficile comunicazione. Ma se tutto quello che facciamo non è comunicabile, e se tutta la propria ricerca è comprensibile solo a pochi eletti, vuol dire che c’è un problema. Non dobbiamo mai dimenticare che il nostro ruolo deve avere un valore sociale, sia come ricercatori sia come educatori delle future generazioni. Se perdiamo di vista il fatto che parte del nostro ruolo è quello di essere anche al servizio della società e della comunità nella quale viviamo, perdiamo, secondo me, uno degli aspetti più belli e rilevanti della ricerca.
C’è da dire che in alcuni casi le cose funzionano. In un progetto realizzato con Kristof De Witte e con Giorgio Gnecco, professore alla Scuola IMT, abbiamo sviluppato un metodo per valutare l’efficacia di una politica pubblica e chi ne trae maggiori benefici. La ricerca riguardava i finanziamenti pubblici al sistema scolastico e il nostro lavoro è stato accolto come working paper dal Ministero dell’Educazione fiammingo. Sono stato invitato a tenere un corso ai funzionari del ministero su come implementare il nostro metodo per le politiche pubbliche. Credo che in questo caso quei due fattori – l’ascolto dei policy makers e la disponibilità alla collaborazione e alla comunicazione – abbiano fatto la differenza.
Che consiglio daresti a una giovane dottoranda o dottorando che voglia intraprendere una carriera accademica? E se volesse farlo negli States?
I consigli sono spesso aneddotici. Non è detto che quello che ha funzionato per me possa funzionare per altri. È il cosiddetto ‘survivor bias’ tanto caro a statistici ed econometrici. Non ci sono scorciatoie o soluzioni one size fits all. La ricerca è un ambito complesso. Ci sono pochi lavori nei quali ci si debba confrontare giornalmente con rifiuti (dei propri lavori) e difficoltà non anticipate (chiunque abbia dovuto “pulire” un dataset sa di cosa parlo) come nel mondo accademico.
Trovo che, tra le persone che ho conosciuto, quelle che sono riuscite a tenere accesa la scintilla primordiale della voglia di scoprire e conoscere – che secondo me è fondamentale per ogni percorso accademico – sono quelle che hanno trovato una giusta intersezione tra la propria passione di ricerca e un tema rilevante per la comunità (non necessariamente un tema caldo o “alla moda” in quel periodo). La passione da sola non basta, c’è anche bisogno di tenere un occhio attento sul mondo. Vedere la propria ricerca applicata non solo dà soddisfazione, ma fornisce una propulsione di energia che serve per continuare quotidianamente ad appassionarsi.
Se posso aggiungere, la caratteristica forse più importante è quella di pensare al percorso accademico come a una lunga ultra maratona. Anche se ci sono ostacoli oggi, bisogna cercare di mantenere il timone dritto, non demordere, non mollare, perché prima o poi si arriva in porto. Riguardo alle carriere negli Stati Uniti, il tratto distintivo che ho osservato tra colleghi dottorandi, ricercatori e professori è l’elevata iniziativa personale. Questo approccio è particolarmente valorizzato nel contesto americano, dove prevale l’idea di non attendere passivamente le opportunità ma di crearle attivamente. Sebbene questo sistema presenti vantaggi e svantaggi, ritengo che la disposizione a mettersi in gioco, stabilire contatti e comunicare in modo diretto sia spesso vantaggiosa.
Un esempio concreto: da quando ho iniziato come professore a UCLA, solo pochi mesi fa, ricevo mediamente due o tre messaggi settimanali da studenti di ogni livello (triennali, magistrali e dottorandi) che chiedono consigli, collaborazioni o mentorship nonostante sia arrivato da relativamente poco. Questa attitudine proattiva nel costruirsi opportunità, senza aspettare che arrivino da sole, rappresenta una delle lezioni più preziose dell’esperienza americana.
Gianpietro Sgaramella